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Termini e condizioniDalla Shoah a Norimberga: la creazione di un nuovo crimine
Fino agli anni Quaranta, non esisteva una definizione giuridica riconosciuta per il sistematico annientamento di interi gruppi etnici o religiosi. Fu il giurista polacco di origini ebraiche Raphael Lemkin, profondamente scosso dallo sterminio degli Armeni e dalla distruzione degli Ebrei europei durante l’Olocausto, a coniare nel 1944 il termine “genocidio” (dal greco genos, “popolo”, e dal latino -cidium, “uccisione”). Secondo Lemkin, il genocidio era l’insieme di azioni coordinate mirate a distruggere le basi essenziali della vita di specifici gruppi, per annientarli come tali.
Il concetto trovò il suo primo impiego ufficiale al Processo di Norimberga contro i principali leader nazisti, dove apparve nell’atto d’accusa per descrivere lo sterminio sistematico di gruppi come ebrei, zingari, polacchi e altri. Tuttavia, il “genocidio” non figurava ancora tra i reati previsti dallo Statuto del Tribunale Militare Internazionale, e la parola venne impiegata in senso descrittivo più che giuridico.
La codificazione nel diritto internazionale
La tragedia della Shoah spinse rapidamente la comunità internazionale a riempire questo vuoto normativo. Nel 1946 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità la Risoluzione 96(I), che riconosceva il genocidio come crimine punibile secondo il diritto internazionale. Due anni dopo, la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, adottata dall’ONU nel 1948 e ratificata a partire dal 1951, fissò la definizione legale ancora oggi in vigore: il “genocidio” è qualsiasi atto commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale.
La definizione include non solo gli omicidi su vasta scala (come quelli perpetrati nei campi di concentramento), ma anche atti come il trasferimento forzato di minori, la creazione di condizioni di vita insostenibili per il gruppo, e la sterilizzazione forzata. L’elemento chiave è l’“intento speciale” di annientamento, che distingue il genocidio da altri crimini contro l’umanità.
Le accuse contemporanee e il dibattito internazionale
Negli ultimi decenni, il termine “genocidio” è stato evocato in molte circostanze: dal Ruanda alla ex Jugoslavia, dalla Cambogia dei Khmer rossi fino ai giorni nostri, come nelle accuse rivolte contro Israele per le operazioni militari a Gaza. Nel gennaio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia è stata chiamata a valutare se alcune azioni israeliane possano configurare una violazione della Convenzione, un procedimento che ha riacceso il dibattito sulle responsabilità degli Stati, sul concetto di “intento” e sui confini tra guerra, difesa e sterminio.
Il ricorso all’accusa di genocidio solleva ogni volta complesse questioni giuridiche ed etiche: l’importanza di accertare prove solide, la difficoltà di distinguere le responsabilità dei governi dalle tragedie della guerra, il rischio di strumentalizzazioni politiche. Tuttavia, la creazione di questo crimine internazionale rappresenta una delle più profonde eredità della Shoah e un monito universale: la memoria di quanto accaduto resta ancora oggi il fondamento stesso della tutela dei diritti umani e del diritto internazionale contemporaneo.