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Cos’è (e come funziona) Alligator Alcatraz, la prigione voluta da Trump per gli immigrati illegali
July 3, 2025 at 10:00 AM
by Redazione
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Alligator Alcatraz, un carcere “naturale” e super sorvegliato

Il nome “Alligator Alcatraz” richiama la celebre prigione di Alcatraz, simbolo di isolamento e durezza, ma qui la barriera non è il mare di San Francisco, bensì la natura ostile delle Everglades. Il centro può ospitare fino a 3.000 detenuti e, secondo le autorità, è stato progettato per scoraggiare qualsiasi tentativo di evasione: oltre alle recinzioni con 28.000 piedi di filo spinato, più di 200 telecamere di sorveglianza e 400 agenti di sicurezza, il vero deterrente sono gli animali selvatici che popolano l’area circostante.

La struttura è stata realizzata in appena otto giorni e ospita i migranti arrestati dalla polizia della Florida nell’ambito del programma federale 287(g), che consente agli agenti locali di interrogare e trattenere immigrati in attesa di espulsione. I primi trasferimenti sono iniziati a luglio 2025, con i detenuti trasportati in autobus e alloggiati in tende e container.

Funzionamento e gestione della prigione

“Alligator Alcatraz” è pensato come centro temporaneo per la detenzione di migranti in attesa di rimpatrio. Il suo funzionamento si basa su una logica di massima efficienza e deterrenza: i detenuti rimangono nella struttura solo il tempo necessario per essere identificati e per organizzare la loro deportazione, senza possibilità di fuga o contatti con l’esterno.

Secondo la Casa Bianca, si tratta di una soluzione “efficace e a basso costo” per facilitare la più grande campagna di espulsioni di massa della storia americana.

Il costo operativo stimato è di circa 450 milioni di dollari l’anno, finanziato in parte attraverso programmi federali già utilizzati per l’emergenza migranti. La gestione è affidata a personale federale e statale, con il coinvolgimento diretto del Dipartimento per la Sicurezza Interna e delle autorità locali.

Critiche e polemiche su Alligator Alcatraz

La creazione di “Alligator Alcatraz” ha suscitato forti proteste da parte di associazioni per i diritti umani, ambientalisti e comunità locali, in particolare le tribù native che vivono nell’area delle Everglades. Le critiche riguardano sia le condizioni di detenzione, considerate estreme per il caldo, le zanzare e l’isolamento, sia l’impatto ambientale su un ecosistema fragile e su territori considerati sacri dalle popolazioni indigene.

L’amministrazione Trump difende la scelta come “misura necessaria” per fermare quella che definisce “l’invasione migratoria” e rilancia l’idea di costruire centri simili in altri Stati, facendo leva sull’effetto deterrente della struttura e sulla promessa di accelerare le procedure di rimpatrio.

Un simbolo politico

“Alligator Alcatraz” è diventato rapidamente un simbolo della linea dura di Trump sull’immigrazione: la stessa denominazione è stata adottata per campagne di raccolta fondi e merchandising dal Partito Repubblicano della Florida, mentre sui social circolano meme che ritraggono alligatori “guardiani” con il logo dell’ICE.

Per i sostenitori, il centro rappresenta la determinazione a “riprendere il controllo dei confini”; per i detrattori, un esempio di politiche disumane e di sfruttamento della paura per fini elettorali.

In sintesi, la “prigione degli alligatori” nelle Everglades è molto più di un semplice centro di detenzione: è una dichiarazione di intenti, un laboratorio di politiche migratorie estreme e un nuovo terreno di scontro tra sicurezza, diritti umani e tutela ambientale negli Stati Uniti contemporanei.

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